Mattia avevi ragione

“La maggior parte degli artisti contemporanei sono diventati dei geometri e dei ragionieri, calcolano, borghesemente, cosa gli porterà in tasca fare questo o quello, e assieme a chi farlo; sgomitano, ruffianano, vogliono arrivare con tutti i mezzi all’affermazione.... e ancora mi chiedo cosa possa essere l’affermazione; e non sono più filosofi dell’arte, adeguandosi a tendenze, a mode passeggere, a quello che i critici vogliono, a quello che certi galleristi chiedono, a quello che sulle riviste d’arte, in televisione o tramite il computer vedono. Si propongono con il pulito, con la freddezza, a volte con la troppa eleganza, di certo con il distacco tipici dell’età elettronica che stiamo vivendo. Non sono che degli elettrodomestici anche loro. Non c’è in loro più passione. Il criticare il sociale è solo un finto stratagemma. Sono più che inseriti e d’accordo con chi tira le file. E’ tutto un bluff quello che viene spacciato come nuovo. Un bluff dell’era del tecnologico “... questo, in sintesi, ciò che mi ricordo di quel che mi disse Moreni l’ultima volta che avemmo uno scambio di idee. Si era alla GAM di Bologna, agli inizi degli anni ‘90, all’inaugurazione di una delle tante mostre “inventate” per riscuotere consenso e fare il pieno di gente. In Mattia, di già anziano, la capacità acuta e pungente di inquadrare le situazioni non si era affatto esaurita, così la lucidità nel dare letture al “moderno” (o post-moderno, o post-post-moderno); acutezza, lucidità, graffio che lo hanno accompagnato fino ai suoi ultimi giorni di vita. La prima volta che incontrai il Maestro, come lo chiamavo e lo chiamavamo noi, che lo si reputava in tutto come tale, avevo 12 anni, era il 1969. In quei tempi, la casa del pittore Primo Costa, posta nelle campagne di Bagnacavallo di Ravenna, fungeva da salotto buono dell’intelligenza e della creatività locale. Io la frequentavo assieme ai miei genitori. Mattia era, nel giusto e nel vero, un artista di già affermato, anche internazionalmente, quindi le dinamiche figlie di quelle serate conviviali, le teorizzazioni più azzardate, le tante curiosità che i presenti avevano riguardo al mondo dell’arte, ruotavano attorno alla sua persona. Rammento che la sua mano destra, guantata di nero, mi incuteva paura. Guanto nero che Moreni agitava nell’aria, quando con forza e, a volte, con rabbia andava a sostenere le sue posizioni, in particolare se l’interlocutore, o gli interlocutori, parlavano a vanvera, senza essere all’altezza delle tematiche discusse. Moreni era indubbiamente una miniera di sapere, così che la faceva da padrone in quell’ambiente un poco provinciale, e non esisteva argomento che non fosse in grado di trattare. Una sera Mattia si avvide del mio imbarazzo da ragazzetto, quando lo sguardo mi cadeva su quella sua “appendice” oscura. Allora mi chiamò vicino e volle che gli toccassi il guanto, poi mi sussurrò: “bisogna andare fieri di quello che i più considerano una mancanza, quando avrai compreso questo, sarai diventato grande”. Passati una ventina d’anni, si era nel 1988 o’89, gli rammentai quello che da Costa mi aveva detto. Moreni mi strabiliò di nuovo, ribaltandomi quel concetto che, a suo tempo, mi aveva fatto molto riflettere. “Solo i bambini riescono ad essere del tutto spietati nell’indicare e poi sottolineare coi loro compagni le altrui differenze”, così mi disse: “i bambini, in questo, sono diretti e attenti. Perciò bisogna andare fieri dell’essere stati bambini. Da adulti poi si recitano miserevoli parti e ogni cosa viene falsata. Io ho la mano guantata e tu facesti bene a notarlo e a farmelo notare. Non facesti che il tuo dovere. Gli adulti, nella loro ipocrisia e nel loro crogiolarsi in bugiarde tolleranze, in vomitevoli compromessi e in commedie della convenzione e della convenienza, arrivano a chiamare diversità e non differenza quello che in realtà considerano, nel profondo delle loro menti bacate, non altro che mancanza”. Mattia era anche questo. Nel momento in cui tu pensavi di avere compreso, e quindi di essere arrivato al nocciolo della questione, ecco che ancora ti spiazzava, e l’avventura ricominciava da capo. Questa nostra esposizione vuole ricordarlo e omaggiarlo per ciò che di soave, oppure urlato, provocatorio o, a volte, perfino crudele ci ha regalato, irrobustendoci il cervello e le spalle, stimolandoci, dialetticamente elevandoci o “bastonandoci”, signorilmente accogliendoci, umanamente e culturalmente allargandoci gli orizzonti percettivi e analitici. Moreni, come già sostenni nel 1999 al Meeting Point dell’Arte Fiera di Bologna, allorquando, pubblicamente, presentai il progetto di quella che poi sarebbe risultata la sua ultima mostra in vita; mostra poi tenutasi presso il Palazzo delle Esposizioni di Faenza, alla realizzazione della quale anch’io contribuii tramite un mio scritto, a fianco di quello della brava curatrice Maria Luisa Somaini;... dicevo, Moreni era un così detto “cane sciolto”, un “libero battitore”, una personalità completa, a sé bastante, che mai si è intruppata in cordate o si è prestata a beceri, bizantini, miserevoli “giochi di palazzo”, come i più, entro il sistema dell’arte (e non solo), sono soliti fare. Egli, stoicamente, ha sempre portato avanti la sua individuale ricerca e la sua esclusivissima forza espressiva ed eversiva, infischiandosene di ciò che l’esterno richiedeva o imponeva. Sempre ha praticato con coerenza la pittura, una letteraria pittura, una pittura narrata, un racconto della pittura, anche quando, per oltre venti anni, il concettuale e il poverismo, l’installazione e la glacialità erano dominanti. Ma il tempo gli ha dato ragione e, a fianco del tempo, la coerenza dimostrata. Già avanti nell’età, quando avrebbe potuto campare tranquillamente, riproponendo, con tecnica sopraffina, quei soggetti che lo avevano reso famoso e preda ambita di molti mercanti, ecco lo sprofondarsi, senza alcun indugio, “nell’ultimo trasalimento del dipingere”, “nel principio della fine dell’umanesimo”, “nelle terrorifiche mutazioni genetiche”, “nel regressivo consapevole”, “negli umanoidi”, difendendo ad oltranza il fare, la visionarietà, l’idealità e, soprattutto, sostenendo la figura dell’artista quale indagatore cosciente di un universo, quale ultimo eroe-poeta contrastante le “facili cavatine”, il nulla spacciato per chissà quale capolavoro, l’effimero, l’omologazione, la pianificazione celebrale, il consumo, la dilagante americanizzazione e, proprio a riguardo delle più recenti esperienze creative, e produzioni pittoriche d’oltreoceano, nonché di quelle neoespressioniste uscite, negli anni ‘80, dagli studi berlinesi dei Selvaggi e degli Infuriati, è importante se non necessario dire che, per tematiche e pathos, l’europeo e l’italiano Mattia le ha anticipate a tutti gli effetti, e quindi, a mio avviso, qualitativamente, e per potenza superate, nonostante il volontario (ma proficuo) isolamento vissuto in provincia, alle Calbane Vecchie, sull’Appennino che sovrasta Faenza e Brisighella. E da quel brullo ma fascinoso eremo, egli ha “annusato”, con grande anticipo, dove l’occidente del mondo sarebbe andato a parare; come l’umanità “emancipata” avrebbe pagato il prezzo della sua superbia e della sua smania tecnologica. Come l’uomo “civilizzato” avrebbe perduto ciò che lo nobilitava, per (ignominiosamente) imboccare il tunnel del solipsismo, dell’aberrazione “computeristica”, dell’insinuante e mediocre normalità (che nell’oggi diviene, giustamente, anormalità), dell’immotivata complessità, dell’alienazione, del delirio informatico, della nevrosi; tutte componenti delle quali, con sommo coraggio e somma ironia, Moreni si è fatto carico, riproponendole autoritraendosi, divenendo, lui stesso, prototipo del disfacimento di una specie, della perdita di sapienzialità, dell’abbandono della semplicità in favore del caotico, dello sclerotizzato, del perverso. Accollandosi tale deviante peso. Eleggendosi (motivatamente) quale coscienza carnale e umorale di un pianeta ormai allo sbando e sottoposto a condizionamenti contraddittori, insensati, imbecilli, nonché induttori di generale demenza, che portano, il nord ovest della terra, a privarsi di doni quali l’emozionalità e lo stupore, la seduzione e lo slancio, e relegano l’individuo al ruolo di caricatura o di fumetto deformato. Questo è stato, e ancora è Moreni. A momenti un demone insopportabile, a momenti un Savonarola, a momenti un francescano-animista, a momenti un impietoso ateo-razionalista, a momenti un immaginifico affabulatore, oppure un velenoso freudiano o un dolce estimatore delle più segrete fragranze naturali, o, anche, un ‘teatrante’, un inarrestabile (e roboante) rullo di tamburo, oppure un arguto e disinvolto simpaticone. Comunque un fulcro ammaliatore. Un personaggio a tutto tondo, carismatico e mitico, per coloro che lo hanno amato, ingombrante e destabilizzante, per coloro che lo hanno odiato; ma non certo egli passava inosservato; non certo induceva all’indifferenza; non certo potevi ignoralo. Era sempre una presenza; un polo accentratore; un vortice; o un energetico trasmettitore. Ma anche, un rispettoso del defilato lavoro degli artigiani; un grande sostenitore di chi, con modestia, si poneva; quindi, e parimenti, uno spietato demolitore dell’altrui operare artistico, quando intuiva che dietro a questo covava opportunismo e malafede; un irriducibile demolitore dei tanti “tromboni accademici”, dei tanti “baroni” della penna o del pennello, ma, in parallelo, un sostenitore di quei giovani artisti che lo avvicinavano, oppure di tutti coloro che, in prima persona e sulla pelle, se la sudavano. Detto ciò, di sicuro Moreni è stato un uomo scomodo per i più. Di sicuro, ai più, davano fastidio i suoi sberleffi plateali e le sue mirabolanti prese di posizione, le sue esternazioni e la sua capacità di analizzare, con un rapido colpo d’occhio, chi gli stava di fronte per poi, se persona non degna, vivisezionarlo con parole taglienti e, a volte, anche offensive, non digeribili, ustionanti come rasoiate, sebbene, allorquando lo vivevi nel privato e con serenità, era invece un armonioso e piacevole conversatore, un buon ascoltatore, un esperto consigliere. Mattia fu dissacratore, ma anche sacerdote di quello in cui credeva: l’arte, “come dirompente strumento di accusa, ma anche d’indagine e d’impegno”. Al Maestro, che abbiamo conosciuto e apprezzato per come in toto era e si poneva, vogliamo (Silvana ed io) dedicare così questa mostra, e con noi lo vogliono gli artisti che abbiamo scelto per fargli degna corona. Pittori, scultori, mosaicisti di varie generazioni, che lo hanno frequentato, che gli hanno voluto bene, che ne hanno condiviso la poetica, che hanno bevuto e fumato assieme a lui, oppure che, dal suo agire, per loro ammissione (vedi Baracca, Fabbri, Silvana Costa, Bubani, Martini, per ricordare i più giovani) sono stati ispirati. Artisti di varie formazioni, calcanti “differenti” percorsi espressivi, ma fra loro avvicinabili non solo perché estimatori di Mattia, ma anche perché reputano ancora attualissime le sue idee, cioè il portare amore nei confronti della manualità, nei confronti della geografia di appartenenza, della tecnica usata, della tradizione (seppure sempre e sempre reinterpretata), della “barbara” enunciazione, della sfida, della spregiudicatezza, dell’arditezza, del rifiuto, perseguendo quale fine il riuscire a fare sì che l’artista (che l’uomo-artista) possa tornare a ricoprire un ruolo onorevole e trainante in “questa società retta da gnomi”, non dovendone più subire le inique regole, le bugiarde e ridicole manifestazioni e, in particolare, le ingiustizie, di solito figlie di sistemi ormai privati del sostegno di un seppur utopico, ma, comunque, liricamente perseguibile, progetto esistenziale e creativo.
      Gian Ruggero Manzoni
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